Io non sono tra coloro che "si sono scoperte
tardi".
Di me lo so da sempre, da quando i parenti ai pranzi di
Natale mi chiedevano se avevo il "fidanzatino" e io avrei voluto
rispondergli che c'era una mia compagna delle elementari che avrei voluto
presentargli. Lo so da quando tutte le mie amiche uscivano con i primi ragazzi
e io guardavo le loro mani, il loro sorriso e i loro occhi verdi mentre mi
raccontavano del primo bacio.
Siccome, però, "così fan tutte", alla fine con
gli uomini ci sono uscita anch'io, intrecciando le storie più assurde e
sbagliate, prendendo e lasciando e facendo anche del male a qualcuno (a me per
prima) e imparando a conoscere me stessa.
La prima esperienza vera con una donna l'ho avuta a 18
anni, ma eravamo piccole, incoscienti, non sapevamo nulla di noi, figuriamoci
dell'amore. Quella storia l'abbiamo vissuta, consumata, devastata come solo gli
adolescenti sanno fare e quando è finito tutto siamo rimaste con il sapore che
fosse crollato il mondo e la paura che non ci saremmo più innamorate. Mai più.
Quantomeno io.
Ovviamente non è andata così.
A 27 anni ho conosciuto lei.
Ricorderò quella sera per tutta la vita.
Ero in penombra nella mia stanza e mentre lavoravo al
computer per sistemare un file, avevo lasciato una chat per sole donne aperta e
ridotta a icona.
Si aprì una finestra sullo schermo. C'era il suo nome per
esteso, un "CIAO" e c'era lei.
Le risposi.
Lei scrisse ancora.
Da quel giorno quel saluto divenne un appuntamento fisso,
un fiume di parole senza argini, divenne racconti, dialoghi, telefonate
lunghissime e senza mai un silenzio e poi, anche, la voglia di vedersi.
Lei abitava (e abita tuttora) a 300 km da casa mia, ma
non importava a nessuna delle due.
Non l'avevo mai vista, né lei aveva mai visto me. Non
esisteva Facebook, non esistevano gli smartphone.
Avevamo un cellulare, gli sms illimitati e la
posta.
E per posta mi arrivò una sua foto a sei anni e un mazzo
di rose rosse che mio padre si ricorda ancora per avergli dovuto fare spazio in
salotto perché sul tavolo della cucina ci dovevamo mangiare e mangiare in una
selva non era proprio possibile.
Ci incontrammo di sera, in stazione.
Tremavamo entrambe come foglie, nonostante l'inverno
fosse passato da un pezzo e non ce ne fosse motivo.
Avevamo tutte le nostre parole nelle tasche, la voglia di
parlare ancora sulle labbra, nelle orecchie la voce, nel cuore solo il
desiderio di stare assieme per tre giorni.
Non avevamo mai parlato di baci, eppure accadde dopo un
quarto d'ora che eravamo sedute in macchina. Lei stava guidando oltre i 100
orari, mi sporsi e la baciai.
L'auto decelerò fino a fermarsi in una piazzola.
Restammo molti minuti con lo sguardo fisso oltre il
parabrezza, senza il coraggio di guardarci l'una con l'altra e i cuori che
sembravano essere passati dal petto alla gola.
Quei tre giorni li trascorremmo nella penombra di casa,
esattamente così come ci eravamo conosciute.
Lì cominciò una sequenza di giorni passati (sempre)
assieme fino a un totale di quattro anni e mezzo, il mio trasferimento, una
convivenza, chilometri di viaggi attorno al mondo.
Viaggi che restano tra i più belli della mia vita.
Non rimpiango nulla. Lo farei e rifarei e lo rifarei
esattamente così come l'ho fatto, solo, forse, parlando di più e pretendendo
qualche risposta.
O forse anche no ed era e rimane perfetto così.
Ciò che resta di bello è che quando mi scrive, ancora
oggi, mi emoziona. Con un colore molto diverso, ma pur sempre pieno e, ancora,
nonostante tutto, in penombra.
Barbara Audisio